lunedì 16 marzo 2015

Circuito chiuso

Ci sono dei momenti della propria vita che, per qualche ragione indecifrabile, rimangono impressi più di altri nella memoria. A volte sono dei ricordi ben precisi: un compleanno, una giornata al mare, un esame superato. Altre volte sono solo delle immagini decontestualizzate: un volto, un oggetto, un odore, un dolore. Ma altre volte ancora non sono che dei suoni: la canzone che ha fatto da colonna sonora ad un avvenimento importante o ad un particolare periodo della propria vita. Immagini e suoni talvolta si fondono, talvolta si intrecciano, talvolta si sovrappongo. Al punto che ci chiediamo spesso se quello che ricordiamo sia davvero avvenuto o non sia magari solo quello che crediamo (o desideriamo) sia avvenuto.
Prendete una vostra fotografia, una di quelle che vi hanno scattato quando eravate piccoli, una di quelle che negli anni avete guardato un milione di volte. Vi avranno senz’altro raccontato mille particolari del giorno in cui quella foto è stata scattata: vi avranno indicato il giorno, il luogo, il nome di eventuali presenti. Quante di queste informazioni appartengono in realtà ai vostri ricordi? E quante invece sono elaborazioni di quello che vi è stato raccontato? Se in quella foto dimostrate meno di 3 anni, probabilmente sono solo ricordi di altri. Non c’è modo infatti di ripescare nella propria memoria delle immagini che risalgono a quell’età. Perlomeno, io non ne sono capace. Ma c’è una fase successiva, che va di solito dai 3 ai 10 anni, in cui i nostri ricordi iniziano a mescolarsi con quelli degli altri creando scenari che, seppur molto vicini alla realtà, in realtà non sono che ricostruzioni più o meno fedeli di avvenimenti accaduti.
Tutto questo è particolarmente vero per chi, come me, ha vissuto la propria fanciullezza negli anni Settanta del secolo scorso. Quelli che hanno i ricordi in bianco e nero, così come in bianco e nero erano le fotografie dell’epoca. Quanti di quei ricordi sono reali? Forse sono solo delle elaborazioni: si osserva una fotografia e, come in un sogno lucido, se ne sviluppano i contorni.
Tutto questo discorso per introdurre il post di oggi, rivisitazione di un post pubblicato tre anni fa sul mio blog principale, e che è incentrato su una cosa che vidi da bambino. Una cosa che, per decine di anni, ho solo creduto fosse un falso ricordo dovuto alla mia fervida immaginazione.
Nel mio ricordo c’era questo film in bianco e nero. Più che un film c’erano degli spezzoni, delle scene isolate. Era qualcosa che mi aveva certamente terrorizzato, qualcosa che aveva sconvolto a fondo la mia sensibilità di bambino. Qualcosa che mi sarei portato dietro, sotto forma di sensazione, attraverso gli anni e fino al nuovo millennio. Mi ricordavo di un cinema. Ma non ero io ad essere in un cinema. Il cinema era l’ambiente in cui si svolgevano i fatti. Sullo schermo veniva trasmesso un film western. Un film con la classica sparatoria tra i buoni e i cattivi. Al termine della proiezione si accendevano le luci in sala e, tra il panico generale, si scopriva che uno degli spettatori delle prime file era morto. La sparatoria del western aveva evidentemente coperto il rumore dello sparo che lo aveva ucciso. Arrivava la polizia, il pubblico veniva trattenuto in sala e si tentava una ricostruzione dei fatti. Come nei più classici gialli, veniva chiesto a ciascuno di prendere posto nella poltrona che occupava al momento dell’omicidio. Nuova proiezione e nuova vittima.

Ho sempre creduto di aver solo immaginato tutto questo. Nessun’altro da me interpellato aveva mai visto o sentito parlare di un film del genere. Non ricordavo nessun particolare, né il titolo, né i nomi o i volti degli attori. Col tempo si era radicata in me la convinzione che mi fossi inventato, o che avessi sognato, tutto. Ne ero convinto al punto che più avanti, mi dicevo, ne avrei scritto un romanzo, che sarebbe diventato un best-seller e da cui, un giorno, qualcuno avrebbe realizzato un film.
In realtà un piccolo particolare mi pareva di ricordarlo: il titolo conteneva in qualche modo la parola “circuito”. Ma quale poteva essere il titolo esatto? Forse “Corto Circuito”? Chissà…

Fatto sta che il tempo trascorse e alla fine me ne dimenticai completamente per oltre vent’anni. In tutto quel tempo mai una prova, mai un solo indizio, che mi potesse far capire se quello che avevo ormai rimosso fosse realtà o una mia fantasia. Nulla, in poche parole, che mi potesse far tornare in mente quella… cosa. Un giorno però, senza una precisa ragione, mi tornò in mente. Quelle scene non le avevo dimenticate. Erano soltanto rinchiuse da qualche parte in fondo alla mia testa. Le immagini, è vero, erano molto più sfumate, ma era rimasta in me una indescrivibile sensazione di disagio.
Ma la domanda era ancora la stessa: realtà o fantasia? Se fosse stato reale, come mai non ne avevo mai più sentito parlare? Se fosse stato un vero film quello che mi ricordavo, come mai in vent’anni non era mai stato replicato?
Il mondo però nel frattempo fortunatamente era cambiato. Era arrivato il World Wide Web! Se il film esisteva, in qualche modo ne avrei trovato traccia. Qualcun altro, uno sconosciuto, magari lontano centinaia di chilometri, avrebbe sicuramente potuto aiutarmi a chiarirmi le idee. La difficoltà è che non avevo molti indizi per una ricerca. Provai così a googlare termini come “Circuito”, “Cinema”, “Settanta”. Niente di rilevante. Con un punto di partenza così misero le possibilità erano esigue. Cominciai a frequentare forum specializzati nel cinema anni Settanta e finalmente qualcuno mi indirizzò su un sito intitolato "Vicolo Stretto". L’avevo trovato! Non era una mia fantasia. Il titolo era “Circuito Chiuso”. La regia di Giuliano Montaldo. La parte del protagonista affidata a Flavio Bucci. Ma certo, come avevo potuto dimenticarlo? Colui che aveva dato il volto a Ligabue nel famoso sceneggiato televisivo

La recensione che trovate su VicoloStretto è molto ben fatta ed approfondisce come mai avrei potuto sperare il tema e i retroscena del film. Raccomando a tutti di andarsela a leggere, ma sappiate che, se vi ho incuriosito e se avete una mezza idea di andarvi poi a cercare il film, verrete beffardamente spoilati. In questo caso allora rimanete qui: ve ne parlerò senza rivelarvi l’incredibile finale.
Si tratta di un film televisivo che fu presentato fuori concorso al ‘Premio Italia’ del 1978, e trasmesso l’anno successivo sulla seconda rete Rai all’interno del ciclo "Tv cinema: 5 film italiani per la televisione." Tra l’altro il film era a colori, e non in bianco e nero come io lo ricordavo. E qui mi riallaccio a quando detto all’inizio: i ricordi sono spesso delle rielaborazioni della mente.

La trama in poche parole: in un cinema di Roma, durante il primo spettacolo del pomeriggio, mentre sullo schermo si svolge la scena del duello di un film western uno spettatore viene ucciso con un colpo di pistola. Dilaga il panico, le uscite vengono bloccate e viene fatta intervenire la polizia. Inizia così il giallo nel suo formato più classico: quello cosiddetto “della porta chiusa”. Diversi indiziati, bloccati in un luogo da cui non si entra né esce e nel cui perimetro avviene un delitto. Il colpevole è sicuramente uno degli indiziati e sarà compito dell’investigatore smascherarlo facendo appello alla logica. Il commissario interroga tutti e cinquantaquattro gli spettatori ma, diversamente da quanto accade nei gialli di Agatha Christie, non viene a capo di nulla. Si fa notte e gli indiziati iniziano a dare segni di insofferenza. Si decide di ricostruire l’accaduto con una nuova proiezione: tutti devono tornare ai posti che occupavano al momento dello sparo; un dipendente della sala cinematografica si offre volontario per occupare la poltrona del morto. Dalla cabina di proiezione parte la pellicola. Il film avanza tra la noia generale fino alla scena della sparatoria. Bang! Accade di nuovo.

Sulla stessa poltrona c’è un secondo cadavere, anche lui ucciso da un colpo di pistola. Un sociologo presente in sala (Flavio Bucci) propone agli inquirenti una sua bizzarra teoria, secondo la quale vi sarebbe uno strano collegamento tra le morti e la poltrona stessa, qualcosa ai limiti della logica. Qui la narrazione si fa avvincente e i brividi iniziano a scorrere lungo la schiena. Mistero? Paranormale? Maledizioni? L’unico indizio è un foro di pallottola trovato al centro dello schermo. Il questore, sopraggiunto per dare una scossa a delle indagini che sembrano non portare a niente, ordina un’altra ricostruzione durante la quale egli siederà personalmente sulla sedia ‘maledetta’. Tutti riprendono posto, e riparte il film.
Mi fermo qui. Il finale è quello che non ti aspetti. È quello che ha tormentato i miei sonni di bambino e che adesso, dopo tanti anni, riappare improvvisamente, in tutta la sua chiarezza, negli occhi un po’ più smaliziati di un adulto. Tra gli interpreti è necessario citare un giovane Giuliano Gemma. Questo tecnicamente è corretto, sebbene Gemma non reciti effettivamente in “Circuito Chiuso”, ma solo in un breve inserto metacinematografico (Giuliano Gemma è infatti un personaggio del film western che viene proiettato sul grande schermo del cinema e che fa da sfondo alla vicenda principale). Il film western, per inciso, è un vero film western. Trattasi di “E per tetto un cielo di stelle”, film del 1968 per la regia di Giulio Petroni. Inoltre, in un ruolo secondario, recitava anche Marzio Honorato, assurto alla notorietà in tempi molto più recenti come interprete storico della soap “Un posto al sole”.

Ci tengo a sottolineare che, diversamente da altri film visti durante la mia infanzia, questo non ha perso un briciolo del suo fascino una volta che l’ho rivisto da adulto. Ora come allora la trama mi ha coinvolto e mi ha lasciato una profonda impressione.
Non è stato facile recuperare il film per potermelo rivedere. Ci ho messo almeno un altro anno. La pellicola probabilmente giace dimenticata da tempo immemore negli immensi archivi della RAI. Forse qualche volta sarà passato in replica, ma certamente sarà stato a qualche ora assurda della notte. “Circuito chiuso” purtroppo non è un blockbuster, non è qualcosa di cui si parla, non è nemmeno uno di quei film anni Settanta che alcuni rari blog specializzati recensiscono di tanto in tanto. E’ qualcosa invece di tremendamente particolare, che si chiude con un messaggio direi sufficientemente destabilizzante da far sì che venga fatto sparire nell’oblio: quello che “di immagini si può morire”. Geniale!

11 commenti:

  1. Anch'io ho rivisto di recente alcuni film con scene che mi sono portato dentro per decenni dalla mia infanzia e che ogni tanto mi riaffioravano alla mente. Due dominavano su tutte: la scena finale di Hallucination di Joseph Losey e la scena della lotta tra Sigfrido e il drago nei Nibelunghi di Fritz Lang. Alla fine mi sono deciso a rivederle e per fortuna, dopo oltre quaranta anni mi si sono ripresentate con forza immutata.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ci sono sempre delle immagini che si portano dietro dall'infanzia e che, sebbene possano sembrare innocue, segnano i vari gradini della nostra formazione. Nel mio caso sono andato a scegliermi immagini molto (troppo) di nicchia per poterle condividere con altri. Ma vedo che anche te non scherzi....

      Elimina
  2. Immagino la tua gioia quando hai scoperto non solo che il film non te l'eri immaginato, ma che potevi sapere di cosa si trattasse e rivederlo anche. :)
    A me è capitata una cosa simile con un telefilm che trasmettevano quasi 20 anni fa su Rai1 di pomeriggio. Una terrificante storia su di una civiltà misteriosa che abitava in fondo a un pozzo. Mi sono messo in testa di cercarlo e alla fine ho scoperto che si trattava dell'episodio "Il pozzo dell'orrore" della serie Amazing Stories di Steven Spielberg. L'anno scorso me la sono rivista tutta e indovina chi erano gli interpreti di quell'episodio? David Carradine e una giovanissima Kyra Sedgwick.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Una terrificante storia su di una civiltà misteriosa che abitava in fondo a un pozzo? Capisco perfettamente come questa idea abbia potuto rosicchiarti il cervello per 20 anni. Sembra davvero inquietante. Bisogna che tenti anch'io un recupero....

      Elimina
  3. A me è successo con qualche film erotico. Visto da bambino mi ricordavo chissà quale scena zozza :D e poi rivisto a distanza di moooolti anni, niente di ché.
    L'unico titolo che ricordo è "Malizia", gli altri erano su quella tipologia.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. La percezione della zozzeria che avevamo da bambini non fa testo. Ai tempi della mia fanciullezza il massimo dell'erotismo era l'ombelico della Carrà... e ho detto tutto.

      Elimina
    2. Io rimasi folgorato da "La supplente", ma avevo già quattordici anni all'epoca. Mi presi una cotta per Dayle Haddon. Anche quello l'ho voluto rivedere dopo molti anni e devo dire che ci avevo visto giusto ^^

      Elimina
    3. Visto che a fare gli zozzoni poi la si paga?
      L'avreste detto che nel 2015 la Carrà sarebbe stata ancora in TV e per giunta a fare un programma più brutto dietro l'altro?

      Elimina
    4. La Carrà è ancora in tivù? Ma dai ?!?!?!

      Elimina
  4. Obs, passa da me che c'è un premio per Obsploitation ;)

    Moz-

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Porca miseria! Non me l'aspettavo... Grazieee! Devo quindi nominarne altri sette? Diventa un casino.. non posso applicare lo stesso trucchetto che avevo ideato sull'altro blog.... Ci penso.....

      Elimina