Domanda: "Che cosa desidera per il futuro?"
Mario Bava: "Desidero una bara ricolma di sangue nella quale io possa riposare in pace, potendo però uscire la notte per addentare sul collo i film che ho fatto."
Domanda: "Come si spiega che gli americani e i francesi hanno apprezzato i suoi film più degli italiani?"
Mario Bava: "Perché sono più fessi di noi."
Esattamente un secolo fa, il 31 luglio 1914, nasceva Mario Bava, uno dei pochi indiscutibili caposaldi del cinema italiano di genere. Autore di pellicole consacrate allo stato di cult quali “La maschera del demonio” (196o) o “Sei donne per l’assassino” (1964), solo per citare un paio di titoli già recensiti dalle mie parti, Mario Bava ha segnato un solco che sarebbe stato ripercorso innumerevoli altre volte dai nostri registi, a partire da Lamberto, figlio d’arte e biologico, passando da tutta la generazione di registi anni Settanta e transitando dai signori del giallo, non ultimo quel Dario Argento che ha sottratto a Bava tutti gli inconfondibili stilemi del giallo che lo avrebbe reso celebre, per terminare (ebbene sì) con la generazione degli Zampaglione et similia che, pur con altalenanti risultati, devono certamente gran parte del loro mestiere agli insegnamenti del grande maestro. Inventore riconosciuto del film gotico, del giallo all’italiana, ma anche di catogorie “meno nobili” come lo slasher, Mario Bava riuscì ad esportare il suo ingegno anche all’estero, raggiungendo e ispirando nomi del calibro di David Lynch, Martin Scorsese, Tim Burton e, naturalmente, il “solito” Quentin Tarantino.