Mi sono improvvisamente reso conto che è da un mese che non aggiorno questo blog. Il fatto è che tutte le mie energie sono assorbite dallo “Speciale Phantasm”, la serie di articoli dedicati alla serie cult di Don Coscarelli, che sto portando avanti proprio di questi tempi su The Obsidian Mirror.
È vero che Obsploitation, per questioni spaziotemporali, avrebbe dovuto essere nei miei propositi un blog da uno o due post al mese, ma è anche vero che un vuoto così prolungato rischia di tarpare le ali alla nuova creatura proprio in questa, delicatissima, fase di start-up.
Sulla base di questa premessa, ho deciso quindi di interrompere il silenzio riproponendo un post che era già apparso su The Obsidian Mirror all’inizio del 2012, un post che a ben guardare ha più senso inserire di qua che non di là.
Mi sono subito reso conto che questo piccolo stratagemma, se così possiamo chiamarlo, non funziona un granché bene: in due anni il mio modo di fare blogging è decisamente cambiato, forse è maturato o forse è il suo contrario, e un semplice copia e incolla di un post non riesce a soddisfarmi. In altre parole, sebbene stia cercando di mantenerne la struttura originale, non vedo altra possibilità che rimetterci ampiamente mano.
L’argomento del giorno è “Patrick” di Richard Franklin, un film australiano contemporaneo al primo “Phantasm” di Coscarelli (giusto per ricollegarmi a ciò che sta succedendo in questi giorni sull’altro blog) che vidi da ragazzino al cinema sotto casa. Erano anni eroici: la domenica pomeriggio, in tasca la mia paghetta settimanale, mi fiondavo in quella sala cinematografica che aveva la caratteristica di proiettare quasi esclusivamente film horror. Tra i primissimi che ho visto, e che non ho mai dimenticato, c’era appunto questo “Patrick”, un horror psicologico che affrontava il tema della telecinesi nelle persone in coma profondo. A posteriori si trattava di poco più di un malfatto B-Movie, più thriller che horror, vista l'assenza di sangue, ma agli occhi di un tutto sommato ingenuo bambino delle scuole medie “Patrick” era in grado di regalare momenti di puro terrore.
Piccola digressione. Alla fine degli anni Settanta, il termine Patrick era in realtà principalmente associato ad una marca di abbigliamento sportivo, ai tempi piuttosto nota. Non c’era ragazzino che non avesse iniziato a riempire il salvadanaio con i propri piccoli risparmi nella speranza di poter finalmente un giorno esaudire il desiderio di possedere le mitiche Patrick, scarpe da ginnastica meravigliose ma ahimè inavvicinabili. Io ero uno di quei ragazzini. Non riuscii mai a permettermele e ancora oggi le Patrick risiedono nella mia memoria come uno dei desideri inespressi della mia fanciullezza. Fine digressione.
Il fatto che “Patrick” fosse contemporaneo al mitico “Phantasm” di Coscarelli ce lo suggerisce lo slogan che potete osservare nella locandina qui in cima. La frase “Se questo film non ti spaventa sei già morto” è spudoratamente copiata dallo slogan ideato per la versione americana di “Phantasm” (if this one doesn’t scare you.. you are already dead). Ho passato anni a cercare di ricordare quale dei due film riportasse quella frase e solo adesso, 35 anni più tardi, mi rendo finalmente conto che non era la mia memoria a fare acqua, bensì che c’era stata già in origine una gran confusione. Probabilmente chi aveva portato “Patrick” in Italia aveva ritenuto opportuno prendere a prestito una frase ad effetto, puntando sulla scarsa attenzione del pubblico di allora. Oggi un tentativo di plagio così patetico naufragherebbe dopo dieci minuti.
In Italia, tra l’altro, la colonna sonora originale australiana composta da Brian May (no, non è quel Brian May) venne rimpiazzata con una più “vendibile” realizzata per l’occasione dai nostrani Goblin (quelli di “Profondo Rosso” e “Suspiria”, per intenderci), che in quegli anni avevano raggiunto livelli di celebrità stupefacenti.
Resta il fatto che ciò che quello slogan aveva promesso sarebbe stato mantenuto: in effetti mi spaventai a morte. La scena finale, che ovviamente qui non descrivo, fece fare un salto di 30 cm sulla sedia a tutti gli spettatori presenti in sala. Altri momenti di alta tensione che mi sono rimasti in mente, dopo tanti anni, riguardano quella tizia che muore elettrificata e lo sguardo di Patrick che si volta verso l’infermiera dopo anni di immobilità. Scene che mi terrorizzarono anche durante la seconda proiezione, nonostante fossi ormai preparato. Per la cronaca, il sottoscritto era solito assistere due volte di seguito alla proiezione di un film (per ammortizzare il costo del biglietto, mi dicevo): entravo alle due del pomeriggio, guardavo il primo spettacolo e, al termine, me ne rimanevo seduto ad attendere il secondo. Rientravo a casa spesso alle sette di sera (a meno che il film non fosse proprio orribile) e mi piaceva osservare le reazioni della gente mentre assisteva a ciò che io avevo già visto.
Patrick è un film australiano, capostipite di un genere che in seguito, nello slang cinematografico, sarebbe stato chiamato Ozploitation (termine che, a quanto si dice, avrebbe inventato Tarantino). Il film ha anche vinto qualche premio in patria ma, rivisto oggi, appare proprio essere giusto lo specchio di un’epoca in cui le pretese da parte del pubblico erano decisamente modeste. La storia è quella di Patrick, un giovane ricoverato in una clinica in stato catatonico dopo aver assassinato la madre e l’amante di lei con una bella stufetta elettrica (gettata nella vasca da bagno dove i due stavano trastullandosi in compagnia). Patrick, per gran parte del film, non risponde ad alcun tipo di sollecitazione e rimane con gli occhi perennemente fissi davanti a sé. Questo almeno fino a quando non arriva una giovane infermiera che scopre che il paziente non solo riesce a capirla, ma che riesce a rispondere alle sue domande agendo a distanza sui tasti di una macchina da scrivere. Patrick è quindi cosciente di quanto accade intorno a sé: non solo è in grado di comunicare, ma ha anche sviluppato dei poteri telecinetici dei quali si serve per sfogare il proprio odio e per esprimere il proprio amore.
Per diversi anni ho rimosso Patrick dai miei pensieri. Tutto quello che mi era rimasto era un’indefinita sensazione di qualcosa di perso che avrei voluto recuperare. C’è stato addirittura un periodo in cui credevo di essermi immaginato l’esistenza stessa di questo film. Ma come potevo essermi immaginato lo sguardo catatonico di Patrick o il suo monociglio alla Elio? Poi finalmente, qualche anno fa, Patrick è tornato alla luce in DVD per merito della Quinto Piano, che pubblicò il film nella propria collana “Cult Horror”. Per chi guarda Patrick oggi sarà difficile comprendere il motivo per cui questo film da molti è considerato un cult. Per chi come me ne fu terrorizzato al cinema da bambino, Patrick rimane un capolavoro, sebbene, rivisto nei giorni scorsi con gli occhi di un adulto, molte di quelle emozioni sono andate irrimediabilmente perse.
In Italia Patrick ebbe un successo non indifferente al botteghino, tanto da spingere il regista Mario Landi a dirigere un paio d’anni più tardi una sorta di sequel apocrifo dal titolo "Patrick vive ancora", memorabile forse solo per la presenza di una giovanissima Carmen Russo. Non c’è molto da dire a proposito di “Patrick vive ancora” se non che è un filmaccio di serie zeta, con giusto qualche omicidio splatter in più rispetto all’originale e una generosa dose di tette e culi ben in mostra. Avrebbe dovuto invece arrivare nel frattempo un sequel ufficiale, ancora una volta a cura di Richard Franklin, dal titolo “Patrick II: the man who wasn’t there”, ma per motivi di budget non fu mai realizzato. Impossibile chiudere questo post senza citare, anche solo in un riga, il remake realizzato da Mark Hartley (un altro mostro sacro del cinema ozploitation) e uscito nelle sale di tutto il mondo giusto l’anno scorso.
È vero che Obsploitation, per questioni spaziotemporali, avrebbe dovuto essere nei miei propositi un blog da uno o due post al mese, ma è anche vero che un vuoto così prolungato rischia di tarpare le ali alla nuova creatura proprio in questa, delicatissima, fase di start-up.
Sulla base di questa premessa, ho deciso quindi di interrompere il silenzio riproponendo un post che era già apparso su The Obsidian Mirror all’inizio del 2012, un post che a ben guardare ha più senso inserire di qua che non di là.
Mi sono subito reso conto che questo piccolo stratagemma, se così possiamo chiamarlo, non funziona un granché bene: in due anni il mio modo di fare blogging è decisamente cambiato, forse è maturato o forse è il suo contrario, e un semplice copia e incolla di un post non riesce a soddisfarmi. In altre parole, sebbene stia cercando di mantenerne la struttura originale, non vedo altra possibilità che rimetterci ampiamente mano.
L’argomento del giorno è “Patrick” di Richard Franklin, un film australiano contemporaneo al primo “Phantasm” di Coscarelli (giusto per ricollegarmi a ciò che sta succedendo in questi giorni sull’altro blog) che vidi da ragazzino al cinema sotto casa. Erano anni eroici: la domenica pomeriggio, in tasca la mia paghetta settimanale, mi fiondavo in quella sala cinematografica che aveva la caratteristica di proiettare quasi esclusivamente film horror. Tra i primissimi che ho visto, e che non ho mai dimenticato, c’era appunto questo “Patrick”, un horror psicologico che affrontava il tema della telecinesi nelle persone in coma profondo. A posteriori si trattava di poco più di un malfatto B-Movie, più thriller che horror, vista l'assenza di sangue, ma agli occhi di un tutto sommato ingenuo bambino delle scuole medie “Patrick” era in grado di regalare momenti di puro terrore.
Piccola digressione. Alla fine degli anni Settanta, il termine Patrick era in realtà principalmente associato ad una marca di abbigliamento sportivo, ai tempi piuttosto nota. Non c’era ragazzino che non avesse iniziato a riempire il salvadanaio con i propri piccoli risparmi nella speranza di poter finalmente un giorno esaudire il desiderio di possedere le mitiche Patrick, scarpe da ginnastica meravigliose ma ahimè inavvicinabili. Io ero uno di quei ragazzini. Non riuscii mai a permettermele e ancora oggi le Patrick risiedono nella mia memoria come uno dei desideri inespressi della mia fanciullezza. Fine digressione.
Il fatto che “Patrick” fosse contemporaneo al mitico “Phantasm” di Coscarelli ce lo suggerisce lo slogan che potete osservare nella locandina qui in cima. La frase “Se questo film non ti spaventa sei già morto” è spudoratamente copiata dallo slogan ideato per la versione americana di “Phantasm” (if this one doesn’t scare you.. you are already dead). Ho passato anni a cercare di ricordare quale dei due film riportasse quella frase e solo adesso, 35 anni più tardi, mi rendo finalmente conto che non era la mia memoria a fare acqua, bensì che c’era stata già in origine una gran confusione. Probabilmente chi aveva portato “Patrick” in Italia aveva ritenuto opportuno prendere a prestito una frase ad effetto, puntando sulla scarsa attenzione del pubblico di allora. Oggi un tentativo di plagio così patetico naufragherebbe dopo dieci minuti.
In Italia, tra l’altro, la colonna sonora originale australiana composta da Brian May (no, non è quel Brian May) venne rimpiazzata con una più “vendibile” realizzata per l’occasione dai nostrani Goblin (quelli di “Profondo Rosso” e “Suspiria”, per intenderci), che in quegli anni avevano raggiunto livelli di celebrità stupefacenti.
Resta il fatto che ciò che quello slogan aveva promesso sarebbe stato mantenuto: in effetti mi spaventai a morte. La scena finale, che ovviamente qui non descrivo, fece fare un salto di 30 cm sulla sedia a tutti gli spettatori presenti in sala. Altri momenti di alta tensione che mi sono rimasti in mente, dopo tanti anni, riguardano quella tizia che muore elettrificata e lo sguardo di Patrick che si volta verso l’infermiera dopo anni di immobilità. Scene che mi terrorizzarono anche durante la seconda proiezione, nonostante fossi ormai preparato. Per la cronaca, il sottoscritto era solito assistere due volte di seguito alla proiezione di un film (per ammortizzare il costo del biglietto, mi dicevo): entravo alle due del pomeriggio, guardavo il primo spettacolo e, al termine, me ne rimanevo seduto ad attendere il secondo. Rientravo a casa spesso alle sette di sera (a meno che il film non fosse proprio orribile) e mi piaceva osservare le reazioni della gente mentre assisteva a ciò che io avevo già visto.
Patrick è un film australiano, capostipite di un genere che in seguito, nello slang cinematografico, sarebbe stato chiamato Ozploitation (termine che, a quanto si dice, avrebbe inventato Tarantino). Il film ha anche vinto qualche premio in patria ma, rivisto oggi, appare proprio essere giusto lo specchio di un’epoca in cui le pretese da parte del pubblico erano decisamente modeste. La storia è quella di Patrick, un giovane ricoverato in una clinica in stato catatonico dopo aver assassinato la madre e l’amante di lei con una bella stufetta elettrica (gettata nella vasca da bagno dove i due stavano trastullandosi in compagnia). Patrick, per gran parte del film, non risponde ad alcun tipo di sollecitazione e rimane con gli occhi perennemente fissi davanti a sé. Questo almeno fino a quando non arriva una giovane infermiera che scopre che il paziente non solo riesce a capirla, ma che riesce a rispondere alle sue domande agendo a distanza sui tasti di una macchina da scrivere. Patrick è quindi cosciente di quanto accade intorno a sé: non solo è in grado di comunicare, ma ha anche sviluppato dei poteri telecinetici dei quali si serve per sfogare il proprio odio e per esprimere il proprio amore.
Per diversi anni ho rimosso Patrick dai miei pensieri. Tutto quello che mi era rimasto era un’indefinita sensazione di qualcosa di perso che avrei voluto recuperare. C’è stato addirittura un periodo in cui credevo di essermi immaginato l’esistenza stessa di questo film. Ma come potevo essermi immaginato lo sguardo catatonico di Patrick o il suo monociglio alla Elio? Poi finalmente, qualche anno fa, Patrick è tornato alla luce in DVD per merito della Quinto Piano, che pubblicò il film nella propria collana “Cult Horror”. Per chi guarda Patrick oggi sarà difficile comprendere il motivo per cui questo film da molti è considerato un cult. Per chi come me ne fu terrorizzato al cinema da bambino, Patrick rimane un capolavoro, sebbene, rivisto nei giorni scorsi con gli occhi di un adulto, molte di quelle emozioni sono andate irrimediabilmente perse.
In Italia Patrick ebbe un successo non indifferente al botteghino, tanto da spingere il regista Mario Landi a dirigere un paio d’anni più tardi una sorta di sequel apocrifo dal titolo "Patrick vive ancora", memorabile forse solo per la presenza di una giovanissima Carmen Russo. Non c’è molto da dire a proposito di “Patrick vive ancora” se non che è un filmaccio di serie zeta, con giusto qualche omicidio splatter in più rispetto all’originale e una generosa dose di tette e culi ben in mostra. Avrebbe dovuto invece arrivare nel frattempo un sequel ufficiale, ancora una volta a cura di Richard Franklin, dal titolo “Patrick II: the man who wasn’t there”, ma per motivi di budget non fu mai realizzato. Impossibile chiudere questo post senza citare, anche solo in un riga, il remake realizzato da Mark Hartley (un altro mostro sacro del cinema ozploitation) e uscito nelle sale di tutto il mondo giusto l’anno scorso.
Eccoti qui.
RispondiEliminaMamma mia, si vede che le cose sono tutte interconnesse... vedi, tu parli di Phantasm e succede che Patrick ruba lo slogan a quel film!
Per inciso: le scarpette sono tremende, il film è un gioiellino, i dvd QuintoPiano sono... oddio, fammi star zitto, ma ho recuperato La Casa dalle Finestre che Ridono, altrimenti attualmente non in commercio.
Vabbé.
Moz-
Non so cosa intendessi dire a proposito dei DVD QuintoPiano ma penso di pensarla esattamente come te. Il fatto però di aver rimesso in circolazione questo film, dimenticato da venti o trent'anni, fa recuperare loro qualche punticino.
EliminaIn fondo anche questo post continua il mese dedicato a Phantasm.
RispondiEliminaLa scelta non è stato affatto casuale ^_^
EliminaPer anni ho cercato questo film, spasmodicamente direi, finchè non trovai il dvd dellla QP, appunto. Ma c'è un'analogia alquanto inquietante in questa tua frase: "...un periodo in cui credevo di essermi immaginato l’esistenza stessa di questo film". Pensa che per un periodo credevo d'averlo immaginato anch'io... A ogni modo ero proprio ragazzino, erano gli anni '80 e ricordo che del film ne venni a sapere tramite a una rivista di cinema horror e sci-fi di mio fratello, in cui c'era proprio la locandina che hai postato corredata della famigerata frase che da quel giorno, diventò per me quasi un incubo, volevo assolutamente vedere quel film... Un'altra nota curiosa riguarda proprio le musiche dei Goblin (che comunque adoro), perchè gli stessi brani sono quelli riutilizzati anche in "Buio Omega" di Joe D'amato e addirittura, "L'altro inferno" di Bruno Mattei...
RispondiEliminaEsisteva una rivista di cinema horror negli anni Ottanta? Sai che non me la ricordo? Non avevo fatto caso che la colonna sonora è esattamente la stessa di Buio Omega. Interessante. Ci farò caso, visto che casualmente ho il DVD anche di quello.
EliminaE' un film che non ho mai visto proprio perché non riuscivo ad acquistare i dvd di quella particolare casa editrice. Cioè ne avevo acquistato uno e me ne ero pentito nonostante il basso costo. Non so se valga la pena recuperare; per ora le mie esplorazioni nell'ozploitation mi hanno procurato quasi solo film dimenticabili.
RispondiEliminaQuel in particolare è decisamente deludente. Qualità non eccelsa e nemmeno uno straccio di extra. Personalmente avevo un ricordo da recuperare e l'ho recuperato, ma non consiglierei a nessuno di spendere dieci euro se non ne ha un motivo.
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