I primi giorni di vita di un blog solitamente sono abbastanza semplici da affrontare. Almeno così è stato per me quando ho aperto The Obsidian Mirror, ormai quasi tre anni fa. Si sceglie la grafica e subito dopo si comincia freneticamente a scrivere, a popolare il blog di argomenti più o meno a caso, badando forse più alla quantità che alla qualità, nella consapevolezza che per diversi mesi, probabilmente, nessuno verrà a dare un’occhiata, né tantomeno nessuno verrà ad esaminare con la lente di ingrandimento le sciocchezze che si scrivono. Quando poi i primi lettori cominceranno ad arrivare l’unica cosa che si limiteranno a fare è controllare la data di nascita del blog e il numero di post che sono stati scritti, cercando di capire da questo insignificante dettaglio se vale la pena fermarsi o darsela a gambe.
Obspolitation è diverso. Obsploitation non ha il tempo per i preliminari. Grazie ad un semplice post introduttivo, infatti, ben otto persone là fuori hanno già deciso di diventare lettori fissi del blog, offrendo piena e cieca fiducia a chi scrive. È un inizio che mi riempe di orgoglio e che, volente o nolente, mi mette nella condizione di dover usare fin da subito una “certa logica” negli argomenti che appariranno qui nei prossimi mesi. Ho già detto che il punto di partenza di Obspolitation è il cinema italiano anni Settanta e, visto che ormai l’ho detto, ora non posso che confermarlo. E da dove potrei partire se non dal genere che più di ogni altro ha caratterizzato quegli anni mitici? È del cinema poliziesco all’italiana (conosciuto anche come poliziottesco) che parleremo oggi. E da dove cominciare se non dal film che è stato unanimemente riconosciuto come il vero capostipite del genere? Da “Banditi a Milano” di Carlo Lizzani, ovviamente.
Tecnicamente “Banditi a Milano” arriva un po’ prima degli anni Settanta (è datato infatti 1968), ma è a lui che tutti i film del decennio successivo faranno riferimento. Carlo Lizzani ebbe l’intuizione di aprire una strada vincente che i vari Alberto De Martino, Bruno Corbucci, Damiano Damiani, Enzo Castellari, Fernando Di Leo, Sergio Martino, Umberto Lenzi e chi più ne ha più ne metta, avrebbero percorso in seguito. Qualcuno potrebbe obiettare che prima di “Banditi a Milano” ci furono altri tentativi di aprire il genere (sto pensando a Elio Petri, per esempio), ma preferisco riferirmi a quei titoli come agli ultimi colpi di coda di quella corrente nota come “neorealismo” di cui il poliziottesco, senza comunque discostarsene troppo, rappresenta la variante “noir”.
La pellicola prende spunto da un fatto di cronaca che insanguinò il capoluogo lombardo nel lontano 1967 e che monopolizzò i titoli dei quotidiani per diversi mesi. Probabilmente il nome di Pietro Cavallero non dirà molto alla maggior parte di voi, ma se c’è qualcuno tra i miei lettori che anagraficamente veleggia attorno al mezzo secolo, allora ne avrà perlomeno sentito parlare. All’epoca dei fatti chi vi scrive galleggiava all’interno di una placenta, per cui non posso far altro che ricorrere al web per ricostruire gli avvenimenti.
Erano gli anni del cosiddetto boom economico, anni in cui l’Italia fu teatro di un fenomeno oggi praticamente impensabile. Il tenore di vita degli italiani migliorava di anno in anno, gli stipendi crescevano e quasi tutte le famiglie, dopo anni di privazioni, potevano ormai permettersi la lavatrice, il frigorifero e la tanto agognata televisione. Anche le automobili erano ormai diffusissime sulle nostre strade e, su queste basi, si modellavano le prime trasformazioni di linguaggio e di costume. Sul fronte cinematografico, il neorealismo dei Visconti, dei De Sica, dei Rossellini lasciava il posto alla commedia all’italiana di Steno e di Salce. La speranza, che gli italiani avevano perduto in pellicole come Ladri di biciclette e Riso amaro, veniva ritrovata nei volti sorridenti di Alberto Sordi, Walter Chiari e Raimondo Vianello.
Fu in quello scenario che la banda Cavallero, figlia di un’epoca di benessere, fece la sua comparsa.
Pietro Cavallero, detto il Piero, era il capo indiscusso. Uomo di grande carisma e invidiabile cultura, aveva trovato nel suo vecchio amico Sante Notarnicola il suo esecutore più sanguinario. I due si conobbero all’inizio degli anni Sessanta tra i tavoli di un bar di corso Vercelli a Torino. Di estrazione proletaria, fortemente politicizzati, Cavallero e Notarnicola reclutarono l’ex partigiano Adriano Rovoletto proprio nelle serate trascorse nelle locali sedi della FGCI. La molla che li muoveva era la rabbia sociale, la voglia di riscatto tipica della classe operaia di quegli anni. Come la storia recente aveva loro insegnato, la rivoluzione era l’unica strada da percorrere per l’autodeterminazione. Ma la rivoluzione aveva un prezzo: niente soldi, niente rivoluzione. Ma dove stavano i soldi, se non in banca? Fu così che i figli del quartiere Barriera entrarono in banca, e lo fecero con le pistole e i passamontagna. La banda Cavallero si rese responsabile, nell’arco di soli 4 anni, di ben 18 rapine, 5 omicidi e 27 feriti. Una tecnica da veri professionisti, che raggiunse il suo apice con il “triplete” del 12 novembre 1965: tre banche rapinate in 45 minuti! Mentre la polizia faceva irruzione in una banca, i tre stavano già rapinando quella successiva. “La prima banca serviva per mangiare, la seconda, la terza e la quarta per fare la rivoluzione”, dissero in seguito al processo.
Ma l’ideologia originale del gruppo, la lotta di classe, sfociò un giorno inevitabilmente nella necessità quasi fisiologica dei soldi facili, e quindi della rapina. Un’orgia di violenza incontrollabile che si concluse tragicamente il pomeriggio del 25 settembre 1967, una data che i milanesi ricorderanno a lungo.
A bordo di una Fiat 1100 rubata, la banda Cavallero si diresse verso il Banco di Napoli di largo Zandonai, in zona fiera. Oltre ai tre elementi storici, quel giorno fu reclutato un ragazzo di 17 anni, Donato Lopez (detto Tuccio), alla sua prima esperienza criminale.
Ma qualcosa andò storto. Un cassiere riuscì ad azionare l’allarme, i banditi si diedero alla fuga ed iniziò una delle più incredibili fughe tra le strade del centro. Oltre 40 volanti della polizia si lanciarono all’inseguimento dei quattro. Sirene urlanti e sgommate si udivano fino ai piani alti degli edifici circostanti. Mitra e pistole fecero fuoco, da una parte e dall’altra, in una corsa folle che proseguì per oltre mezz’ora. Poi, quando tutto sembrava ormai perduto, i quattro uomini impazziti iniziarono a sventagliare di proiettili anche i passanti. Fu una carneficina. Al termine di quel giorno maledetto si contarono 4 morti e 19 feriti. Adriano Rovoletto fu catturato subito dagli agenti, che a malapena lo strapparono alla folla inferocita, intenzionata a fare giustizia con le proprie mani. Donato Lopez fu prelevato nella propria casa di Torino il giorno seguente. Cavallero e Notarnicola resistettero una settimana vagando nelle campagne attorno ad Alessandria. Infine il cerchio si chiuse anche attorno a loro. Al processo la condanna non potè che essere l’ergastolo.
Solo pochi mesi più tardi Carlo Lizzani, sulla scia dell’emozione suscitata dagli avvenimenti sopra descritti, realizzò quello che oggi chiameremo un “instant-movie”. A dare il volto a Pietro Cavallero nella finzione cinematografica ci avrebbe pensato un grande Gian Maria Volontè, che solo due anni prima, ancora sotto la direzione di Carlo Lizzani, aveva lavorato in “Svegliati e uccidi”, ispirato alle imprese di Luciano Lutring, famoso rapinatore milanese che agì nella prima metà degli anni Sessanta. Credo che qualunque aggettivo su Volontè oggi sia supefluo, ma in questo contesto vale la pena ricordarlo per alcuni dei suoi film-simbolo ispirati alla storia italiana: I sette fratelli Cervi (1968), Sacco e Vanzetti (1971), Il caso Mattei (1972), Lucky Luciano (1973), Il Caso Moro (1986) e molti altri ancora.
Sante Notarnicola fu interpretato dal leggendario Don Backy, che molti ricorderanno per i suoi successi discografici, ma che ebbe anche un’interessante carriera come attore. L’anno successivo, sempre per Carlo Lizzani, interpretò assieme a Terence Hill il lungometraggio “Barbagia (La società del malessere)”, ispirato alle vicende di Graziano Mesina, un altro nostro famoso bandito.
Adriano Rovoletto e Donato Lopez furono interpetati rispettivamente dai Ezio Sancrotti e Ray Lovelock, volti che rivedremo spessissimo nel decennio successivo in grandi classici del poliziottesco italiano.
Una menzione particolare per il grande Tomas Milian (il commissario di polizia) che qui quasi stentiamo a riconoscere, tanto lontano è dalla sua più nota immagine del “Monnezza”, e per l’allora giovanissima Carla Gravina, alla quale fu riservato poco più di un cameo.
Ma che dire di questo “Banditi a Milano”? È un film di pura cronaca, che ripercorre esattamente gli avvenimenti così come sono accaduti, senza lasciare il minimo spazio alla fantasia o all’improvvisazione. Anche una semplice frase come quella che esce dalle labbra di Cavallero in fuga, preoccupato che la sua famiglia possa soffire a causa sua (“Una sola cosa da fare: arrivare a Torino, far fuori mia moglie e mia madre e poi spararmi”) è un particolare colorito ma realmente accaduto. Per sottolineare l’estrema aderenza ai fatti, Carlo Lizzani decide di inserire un lungo “cappello” iniziale, girato sullo stile dei vecchi cinegiornali (chi frequentava i cinema trenta o quarant’anni fa certemente se li ricorderà), un’introduzione che riassume il fenomeno malavitoso delle realtà urbane di quegli anni. Una scelta che lascia spiazzati e che, coraggiosamente, sfida lo spettatore a proseguire sulla fiducia o ad abbandonare la visione.
Ho usato l’aggettivo “coraggioso” non a caso. "Banditi a Milano" è indubbiamente un film coraggioso sotto tutti i punti di vista: basti pensare alla non facile necessità di dover mettere in scena un inseguimento per le strade di Milano solo pochi mesi dopo i fatti, quando il ricordo della strage era ancora così vivido e l’asfalto era ancora caldo del sangue dei suoi concittadini.
Oggi film del genere non se ne fanno più. E quando dico “del genere” intendo dire “di tale spessore”, perché, inutile negarlo, la cronaca continua incessantemente a fornire idee alla finzione cinematografica. Ma i casi di oggi non sono più adatti al grande schermo. I casi di oggi finiscono in prima serata sui canali Mediaset e, come a preannunciarne la vuotezza, vengono chiamati “fiction”. Pensate per un attimo al cast di “Banditi a Milano” e confrontatelo con quello che oggi dovrebbe esserne l’eredità: ebbene, pur con tutto il rispetto per Raoul Bova e Claudia Pandolfi, siamo davvero su un altro pianeta.
Per approfondimenti: I poveri mostri della celebre banda Cavallero
Obspolitation è diverso. Obsploitation non ha il tempo per i preliminari. Grazie ad un semplice post introduttivo, infatti, ben otto persone là fuori hanno già deciso di diventare lettori fissi del blog, offrendo piena e cieca fiducia a chi scrive. È un inizio che mi riempe di orgoglio e che, volente o nolente, mi mette nella condizione di dover usare fin da subito una “certa logica” negli argomenti che appariranno qui nei prossimi mesi. Ho già detto che il punto di partenza di Obspolitation è il cinema italiano anni Settanta e, visto che ormai l’ho detto, ora non posso che confermarlo. E da dove potrei partire se non dal genere che più di ogni altro ha caratterizzato quegli anni mitici? È del cinema poliziesco all’italiana (conosciuto anche come poliziottesco) che parleremo oggi. E da dove cominciare se non dal film che è stato unanimemente riconosciuto come il vero capostipite del genere? Da “Banditi a Milano” di Carlo Lizzani, ovviamente.
Tecnicamente “Banditi a Milano” arriva un po’ prima degli anni Settanta (è datato infatti 1968), ma è a lui che tutti i film del decennio successivo faranno riferimento. Carlo Lizzani ebbe l’intuizione di aprire una strada vincente che i vari Alberto De Martino, Bruno Corbucci, Damiano Damiani, Enzo Castellari, Fernando Di Leo, Sergio Martino, Umberto Lenzi e chi più ne ha più ne metta, avrebbero percorso in seguito. Qualcuno potrebbe obiettare che prima di “Banditi a Milano” ci furono altri tentativi di aprire il genere (sto pensando a Elio Petri, per esempio), ma preferisco riferirmi a quei titoli come agli ultimi colpi di coda di quella corrente nota come “neorealismo” di cui il poliziottesco, senza comunque discostarsene troppo, rappresenta la variante “noir”.
La pellicola prende spunto da un fatto di cronaca che insanguinò il capoluogo lombardo nel lontano 1967 e che monopolizzò i titoli dei quotidiani per diversi mesi. Probabilmente il nome di Pietro Cavallero non dirà molto alla maggior parte di voi, ma se c’è qualcuno tra i miei lettori che anagraficamente veleggia attorno al mezzo secolo, allora ne avrà perlomeno sentito parlare. All’epoca dei fatti chi vi scrive galleggiava all’interno di una placenta, per cui non posso far altro che ricorrere al web per ricostruire gli avvenimenti.
Erano gli anni del cosiddetto boom economico, anni in cui l’Italia fu teatro di un fenomeno oggi praticamente impensabile. Il tenore di vita degli italiani migliorava di anno in anno, gli stipendi crescevano e quasi tutte le famiglie, dopo anni di privazioni, potevano ormai permettersi la lavatrice, il frigorifero e la tanto agognata televisione. Anche le automobili erano ormai diffusissime sulle nostre strade e, su queste basi, si modellavano le prime trasformazioni di linguaggio e di costume. Sul fronte cinematografico, il neorealismo dei Visconti, dei De Sica, dei Rossellini lasciava il posto alla commedia all’italiana di Steno e di Salce. La speranza, che gli italiani avevano perduto in pellicole come Ladri di biciclette e Riso amaro, veniva ritrovata nei volti sorridenti di Alberto Sordi, Walter Chiari e Raimondo Vianello.
Fu in quello scenario che la banda Cavallero, figlia di un’epoca di benessere, fece la sua comparsa.
Pietro Cavallero, detto il Piero, era il capo indiscusso. Uomo di grande carisma e invidiabile cultura, aveva trovato nel suo vecchio amico Sante Notarnicola il suo esecutore più sanguinario. I due si conobbero all’inizio degli anni Sessanta tra i tavoli di un bar di corso Vercelli a Torino. Di estrazione proletaria, fortemente politicizzati, Cavallero e Notarnicola reclutarono l’ex partigiano Adriano Rovoletto proprio nelle serate trascorse nelle locali sedi della FGCI. La molla che li muoveva era la rabbia sociale, la voglia di riscatto tipica della classe operaia di quegli anni. Come la storia recente aveva loro insegnato, la rivoluzione era l’unica strada da percorrere per l’autodeterminazione. Ma la rivoluzione aveva un prezzo: niente soldi, niente rivoluzione. Ma dove stavano i soldi, se non in banca? Fu così che i figli del quartiere Barriera entrarono in banca, e lo fecero con le pistole e i passamontagna. La banda Cavallero si rese responsabile, nell’arco di soli 4 anni, di ben 18 rapine, 5 omicidi e 27 feriti. Una tecnica da veri professionisti, che raggiunse il suo apice con il “triplete” del 12 novembre 1965: tre banche rapinate in 45 minuti! Mentre la polizia faceva irruzione in una banca, i tre stavano già rapinando quella successiva. “La prima banca serviva per mangiare, la seconda, la terza e la quarta per fare la rivoluzione”, dissero in seguito al processo.
Ma l’ideologia originale del gruppo, la lotta di classe, sfociò un giorno inevitabilmente nella necessità quasi fisiologica dei soldi facili, e quindi della rapina. Un’orgia di violenza incontrollabile che si concluse tragicamente il pomeriggio del 25 settembre 1967, una data che i milanesi ricorderanno a lungo.
A bordo di una Fiat 1100 rubata, la banda Cavallero si diresse verso il Banco di Napoli di largo Zandonai, in zona fiera. Oltre ai tre elementi storici, quel giorno fu reclutato un ragazzo di 17 anni, Donato Lopez (detto Tuccio), alla sua prima esperienza criminale.
Ma qualcosa andò storto. Un cassiere riuscì ad azionare l’allarme, i banditi si diedero alla fuga ed iniziò una delle più incredibili fughe tra le strade del centro. Oltre 40 volanti della polizia si lanciarono all’inseguimento dei quattro. Sirene urlanti e sgommate si udivano fino ai piani alti degli edifici circostanti. Mitra e pistole fecero fuoco, da una parte e dall’altra, in una corsa folle che proseguì per oltre mezz’ora. Poi, quando tutto sembrava ormai perduto, i quattro uomini impazziti iniziarono a sventagliare di proiettili anche i passanti. Fu una carneficina. Al termine di quel giorno maledetto si contarono 4 morti e 19 feriti. Adriano Rovoletto fu catturato subito dagli agenti, che a malapena lo strapparono alla folla inferocita, intenzionata a fare giustizia con le proprie mani. Donato Lopez fu prelevato nella propria casa di Torino il giorno seguente. Cavallero e Notarnicola resistettero una settimana vagando nelle campagne attorno ad Alessandria. Infine il cerchio si chiuse anche attorno a loro. Al processo la condanna non potè che essere l’ergastolo.
Solo pochi mesi più tardi Carlo Lizzani, sulla scia dell’emozione suscitata dagli avvenimenti sopra descritti, realizzò quello che oggi chiameremo un “instant-movie”. A dare il volto a Pietro Cavallero nella finzione cinematografica ci avrebbe pensato un grande Gian Maria Volontè, che solo due anni prima, ancora sotto la direzione di Carlo Lizzani, aveva lavorato in “Svegliati e uccidi”, ispirato alle imprese di Luciano Lutring, famoso rapinatore milanese che agì nella prima metà degli anni Sessanta. Credo che qualunque aggettivo su Volontè oggi sia supefluo, ma in questo contesto vale la pena ricordarlo per alcuni dei suoi film-simbolo ispirati alla storia italiana: I sette fratelli Cervi (1968), Sacco e Vanzetti (1971), Il caso Mattei (1972), Lucky Luciano (1973), Il Caso Moro (1986) e molti altri ancora.
Sante Notarnicola fu interpretato dal leggendario Don Backy, che molti ricorderanno per i suoi successi discografici, ma che ebbe anche un’interessante carriera come attore. L’anno successivo, sempre per Carlo Lizzani, interpretò assieme a Terence Hill il lungometraggio “Barbagia (La società del malessere)”, ispirato alle vicende di Graziano Mesina, un altro nostro famoso bandito.
Adriano Rovoletto e Donato Lopez furono interpetati rispettivamente dai Ezio Sancrotti e Ray Lovelock, volti che rivedremo spessissimo nel decennio successivo in grandi classici del poliziottesco italiano.
Una menzione particolare per il grande Tomas Milian (il commissario di polizia) che qui quasi stentiamo a riconoscere, tanto lontano è dalla sua più nota immagine del “Monnezza”, e per l’allora giovanissima Carla Gravina, alla quale fu riservato poco più di un cameo.
Ma che dire di questo “Banditi a Milano”? È un film di pura cronaca, che ripercorre esattamente gli avvenimenti così come sono accaduti, senza lasciare il minimo spazio alla fantasia o all’improvvisazione. Anche una semplice frase come quella che esce dalle labbra di Cavallero in fuga, preoccupato che la sua famiglia possa soffire a causa sua (“Una sola cosa da fare: arrivare a Torino, far fuori mia moglie e mia madre e poi spararmi”) è un particolare colorito ma realmente accaduto. Per sottolineare l’estrema aderenza ai fatti, Carlo Lizzani decide di inserire un lungo “cappello” iniziale, girato sullo stile dei vecchi cinegiornali (chi frequentava i cinema trenta o quarant’anni fa certemente se li ricorderà), un’introduzione che riassume il fenomeno malavitoso delle realtà urbane di quegli anni. Una scelta che lascia spiazzati e che, coraggiosamente, sfida lo spettatore a proseguire sulla fiducia o ad abbandonare la visione.
Ho usato l’aggettivo “coraggioso” non a caso. "Banditi a Milano" è indubbiamente un film coraggioso sotto tutti i punti di vista: basti pensare alla non facile necessità di dover mettere in scena un inseguimento per le strade di Milano solo pochi mesi dopo i fatti, quando il ricordo della strage era ancora così vivido e l’asfalto era ancora caldo del sangue dei suoi concittadini.
Oggi film del genere non se ne fanno più. E quando dico “del genere” intendo dire “di tale spessore”, perché, inutile negarlo, la cronaca continua incessantemente a fornire idee alla finzione cinematografica. Ma i casi di oggi non sono più adatti al grande schermo. I casi di oggi finiscono in prima serata sui canali Mediaset e, come a preannunciarne la vuotezza, vengono chiamati “fiction”. Pensate per un attimo al cast di “Banditi a Milano” e confrontatelo con quello che oggi dovrebbe esserne l’eredità: ebbene, pur con tutto il rispetto per Raoul Bova e Claudia Pandolfi, siamo davvero su un altro pianeta.
Per approfondimenti: I poveri mostri della celebre banda Cavallero
Felice di far parte di chi ti segue!
RispondiEliminaChe dirti... giusto un anno fa scrivevo la mia seconda tesi, ed era proprio sul poliziesco, dal cinema alla fiction.
Quindi, parte delle pagine è dedicata al poliziottesco, e... sì, Banditi a Milano si tende a farlo risultare capofilone derivativo dal cinema impegnato degli anni '50 e '60, almeno secondo una scuola di pensiero (l'altra vuole La polizia ringrazia meritevole di questo primato).
Lizzani ha il suo modo di far film e si vede, qui forse siamo davvero più dalle parti del cinema di impegno civile piuttosto che del poliziottesco, anche se molti ingredienti (e protagonisti!) ci sono... Insomma, era solo questione di tempo ;)
Bella lì, badboy!
Moz-
Tutto il cinema è evoluzione di qualcosa che c'era già stato, per cui non mi stupisco che ci siano diverse scuole di pensiero circa le origini di un genere. Banditi a Milano mi sembra che sia il primo film ad essere completamente sganciato dalla tradizione dei gangster-movie americani, ma questo è ovviamente un parere personale. Sul primato de "La polizia ringrazia" ho qualche dubbio, visto che, per esempio, un cult come "Confessioni di un Commissario di Polizia al Procuratore della Repubblica" (di Damiano Damiani) lo ha preceduto.
EliminaSì ma anche Confessioni è un sacco "impegnato"... comunque se la battono questi come capofiloni... di certo non si può individuare un film con cui dire "da qui inizia il poliziottesco" :)
EliminaMoz-
Felice anch'io di far parte dei magnifici 8! Ma nonostante la mia passione per i film del periodo, il poliziottesco non è mai stato tra i miei generi prediletti, così come non amo lo spaghetti-western. Qual è il mio genere? Ti butto lì due titoli, i primi che mi vengono in mente: L'ultimo treno della notte e Cosa avete fatto a Solange? Buon ob-proseguimento ;)
RispondiEliminaHai citato due super cult! Adoro soprattutto "L'ultimo treno della notte" di Aldo Lado, una pellicola che, considerata la sua epoca, credo sia stata una delle più violente mai apparse sugli schermi.
EliminaNon è il tuo caso puntare solo sulla quantità. E chi ti segue lo sa bene. Qualità ed eleganza espositiva!
RispondiEliminaNon commento la pellicola che hai proposto perché il tuo pezzo la commenta magnificamente. Giusto un "Vai così!" che mi viene dal cuore. Ti seguo sempre con piacere, Manu..
Grazie Manuela. Sei davvero troppo generosa! Per quanto riguarda il discorso "qualità" cerco solo di fare del mio meglio, anche se ciò va a discapito della frequenza di pubblicazione. Il problema è che "il mio meglio" quasi mai mi soddisfa. Sul discorso "quantità" invece è da tempo che cerco disperatamente di accorciare i post ma, ahimè, il dono della sintesi non mi è stato concesso.
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