martedì 29 luglio 2014

Sette note in nero

Mi sposai giovane, e fui felice di trovare in mia moglie una indole congeniale alla mia. Osservando la mia predilezione per gli animali domestici, non perdeva occasione di procurarmi quelli delle specie più piacevoli. Avevamo uccelli, pesci dorati, un bellissimo cane, conigli, una scimmietta e un gatto.

Tutto iniziò nel 1843, quando un ispirato scrittore americano diede alla luce un racconto che, seppur nella sua brevità e nella semplicità del suo intreccio, sarebbe stato destinato a diventare uno dei capisaldi assoluti della letteratura horror di tutti i tempi. L’idea di base era molto semplice: sfruttare quell’antichissima leggenda che vede i gatti neri portatori di sventura, una leggenda che, tramandata di epoca in epoca, non poteva non essere giunta alle orecchie del nostro scrittore. Sulle origini del misterioso potere attribuito ai gatti neri si potrebbero spendere pagine e pagine ma, in questa sede, basti sapere che tutto è da ricondursi alla civiltà dell’antico Egitto, la più remota testimone della convivenza tra uomini e gatti (agli antichi egizi si devono le prime immagini funerarie di gatti nonché le prime iscrizioni a loro dedicate nelle piramidi). Legati alla dea Iside, regina della notte, i gatti neri vennero quindi associati al concetto di oscurità, il che li portò, con un breve passo, a divenire, come quest’ultima, sinonimo di paura. I secoli non fecero altro che amplificare questa associazione, fino a toccare l’apice durante gli anni bui dell’Inquisizione, quando migliaia di gatti neri vennero perseguitati e messi al rogo per le loro supposte connotazioni maligne. 
Ma mi rendo conto che, parlando di gatti, sto seriamente rischiando di andare fuori tema. Il nostro scrittore, stavo dicendo, non era certo un ragazzo alle prime armi: tra la sua immensa produzione letteraria (all’epoca era quasi quarantenne) c’erano già stati diversi lavori che, soprattutto dopo la sua morte, che avverrà sei anni più tardi in circostanze mai chiarite, consegnarono il suo nome alla leggenda. Tra questi uno in particolare è oggi universalmente identificato come il capostipite del romanzo poliziesco. Precedendo di quasi 80 anni l’esordio della “regina del giallo”, Agatha Christie, il racconto “ The murders in the rue Morgue (1841)” non fu tuttavia in grado di portare immediata gloria al suo autore. Il successo venne però due anni più tardi, proprio con il racconto nato sulla leggenda del gatto nero portatore di sventura. Edgar Allan Poe, scrittore, poeta, giornalista, editore ma soprattutto pioniere della letteratura horror, aveva colto nel segno e aveva consegnato ai posteri un racconto il cui tema, tra l’altro, sarebbe stato anche uno dei più sfruttati a livello cinematografico.

Per parte mia, ben presto sentii nascere dentro di me una viva antipatia nei suoi confronti. Era proprio il contrario di quel che avevo previsto; ma ‐ non so come e perché avvenisse ‐ il suo evidente affetto per me non faceva che disturbarmi e irritarmi. A poco a poco questi sentimenti, disgusto e fastidio, crebbero fino a mutarsi nell'asprezza e nell'odio. 

Il primo cineasta ad intuire il potenziale del racconto di Edgar Allan Poe fu un pioniere del cinema muto, il francese Charles Krauss. Il suo “Le chat noir” (datato 1920, e ovviamente, omonimo del racconto di Poe), che risulta essere oggi di difficile (ma non impossibile) reperibilità, durava all’incirca 45 minuti e ricalcava solo in parte la fonte originale: nella versione di Krauss la storia ruotava attorno ad una serie di omicidi (assenti nel racconto di Poe) testimone dei quali era, sistematicamente, lo stesso sinistro gatto nero. Dopo quel primo adattamento, molti altri ne seguirono e, ad oggi, i più celebri sono forse quelli che troviamo nel contesto di due film ad episodi girati a distanza di 30 anni l’uno dall’altro. Due film girati da due registi che, seppur diametralmente diversi tra loro, hanno segnato, ciascuno, un solco importante nel cinema horror della propria epoca. Il primo è Roger Corman, che inserì l’episodio “Il gatto nero” nel suo immortale “I racconti del terrore” (1962); il secondo fu Dario Argento, che si cimentò con “Il gatto nero” nel secondo spezzone del film “Due occhi diabolici” (1990). 

Brandendo un'ascia, e dimenticando nella mia furia il puerile timore che fino a quel momento aveva frenato la mia mano, vibrai all'animale un colpo che, se fosse calato come volevo, gli sarebbe certo riuscito fatale. Ma il colpo fu arrestato dalla mano di mia moglie. Questo suo intervento scatenò in me una rabbia più che demoniaca: liberai il braccio dalla sua presa e le affondai l'ascia nel cervello. Cadde morta all'istante, senza un gemito. 

Ma è stato indiscutibilmente il nostro Lucio Fulci colui che riuscì a realizzare il migliore tra i tanti tentativi di trasferire sul grande schermo “Il gatto nero” di Poe. Il mitico “re dell’horror all’amatriciana”, uno dei nostri più prolifici autori, talmente versatile da non indietreggiare di fronte ad alcun genere gli venisse proposto, realizzò addirittura due diversi adattamenti del racconto di Poe. Il primo di questi è appunto “Sette note in nero” (1977), oggetto del post di oggi, con Jennifer O'Neill, Gianni Garko e Gabriele Ferzetti; il secondo arriverà pochi anni più tardi e verrà intitolato, in maniera molto più esplicita, proprio “Il gatto nero” (1981). Seppure non sia tecnicamente esatto affermare che sia proprio il celebre racconto di Poe a cui “Sette note in nero” strizza l’occhio, le similitudini sono evidenti. Ma per spiegarmi meglio occorre qui una piccola digressione letteraria e ritornare al 1843, nello studio del nostro scrittore: negli stessi giorni in cui Edgar Allan Poe stava lavorando al suo “gatto nero”, tra i suoi innumerevoli appunti figurava una versione leggermente diversa della storia. L’ossessione del protagonista, in quella versione, non era un gatto nero, bensì l’occhio vitreo di un vecchio che lo fissava costantemente. In preda alla follia egli finì per uccidere l’oggetto dei suoi incubi, lo smembrò e ne occultò il cadavere sotto le tavole del pavimento. Ma tutto ciò non bastò a risvegliarsi dall’incubo e sarà proprio la sua follia infine a condannarlo. 

A tale scopo la cantina era quanto mai adatta. I muri erano poco compatti, e di recente erano stati ricoperti per intero di un ruvido intonaco che a causa dell'umidità dell'atmosfera non aveva potuto indurirsi. Inoltre, in uno dei muri c'era una sporgenza, dovuta a un falso camino o focolare, che era stata riempita così da non presentare differenze rispetto al resto della cantina. Non avevo dubbi di potere agevolmente rimuovere i mattoni in quel punto per poi introdurvi il cadavere e murare tutto come prima così che nessun occhio scoprisse alcunché di sospetto. 

Anche il racconto “Il cuore rivelatore”, variante sul tema del gatto nero, vide la luce nel 1843. Lucio Fulci conosceva evidentemente entrambi i racconti di Poe e, quando diresse il suo “Sette note in nero”, probabilmente decise di prelevare il meglio dai due racconti e di miscelarlo assieme. Ciò che ne venne fuori fu la storia di una signora inglese dell’alta borghesia, dotata fin da bambina di capacità precognitive (il film si apre con lei bambina che “vede” il suicidio della madre). Virginia Ducci, ormai adulta, è tormentata dalla visione di uno scheletro di una donna murata viva. Un episodio avvenuto chissà quando e chissà dove, a cui lei assiste con dovizia di particolari fino al tragico epilogo. Sarà quando Virginia metterà piede per la prima volta nella villa di campagna del marito che il vero incubo avrà inizio: quel luogo, le stanze, l’arredamento, è tale e quale a quello della sua visione. Presa dal panico Virginia chiederà l’intervento della polizia che troverà effettivamente un cadavere dietro la parete da lei indicata. A seguito dell’autopsia, quei macabri resti si riveleranno appartenere ad una giovane donna scomparsa anni prima, forse l’amante del marito di Virginia. Ma la storia non sarà così semplice. Virginia capirà di aver sbagliato tutto, di aver interpretato male la sua visione, che a poco a poco si fa sempre più nitida. Non sarà però un gatto nero il deux ex machina della vicenda, bensì il carillon di un orologio (molto più simile come concetto al battito del “Cuore rivelatore”). 

Il quarto giorno dopo l’assassinio, del tutto inaspettatamente, si presentarono in casa mia alcuni agenti di polizia e procedettero a un nuovo, minuzioso esame dell’edificio. Ma, sicuro com’ero dell’irreperibilità del mio nascondiglio, non provai il minimo imbarazzo. Gli agenti mi ordinarono di accompagnarli nella perquisizione. Non lasciarono inesplorato nessun angolo, nessun recesso. Alla fine, per la terza o quarta volta, scesero in cantina. Non mi tremava un muscolo. Il cuore mi batteva calmo come quello di chi dorma un sonno innocente. Percorsi la cantina da un capo all’altro. Camminai avanti e indietro con fare disinvolto, le braccia conserte. Quelli della polizia erano pienamente soddisfatti e si disponevano ad andarsene. L’esultanza del mio cuore era troppo forte perché potessi frenarla. Smaniavo dalla voglia di dire una parola, una sola, in segno di trionfo, e rendere doppiamente certa la loro certezza della mia innocenza. 

Ciò che distingue “Sette note in nero” da tutti gli altri adattamenti cinematografici è proprio l’impronta di Lucio Fulci, che qui troviamo ispirato come non mai, assieme alla sbalorditiva fotografia di Sergio Salvati. C’è uno stretto legame che lega Lucio Fulci ad Edgar Allan Poe e ai protagonisti dei suoi racconti. La visionarietà, innanzitutto, e forse quel briciolo di follia che, criticato in vita, ne rappresenta lo stimolo per la consacrazione in morte. Un talento visionario che non ha mai portato nulla di buono a nessuno, né allo scrittore, né al regista, né tantomeno alla Virginia Ducci di “Sette note in nero”, a cui solo il puro caso è corso in aiuto. «Un film che trascende i limiti del giallo» - spiega Lucio Fulci nell’intervista pubblicata sullo speciale di “Nocturno” a lui dedicato - «Uno dei miei film migliori, che in Italia non ha fatto neanche i soldi per pagare le pile delle maschere in sala. Ho legato il tema della parapsicologia al giallo e ho raccontato il mio personale rapporto con il tempo passato e quello futuro. È la storia che vede nel presente il suo futuro e pensa in realtà sia un fatto avvenuto nel passato. Affascinante.». 
Nel caso siate appena sbarcati da Marte e non conosciate il finale de “Il gatto nero” di Poe, vi consiglio di saltare a piè pari il prossimo corsivo, che lo riporta integralmente. Viceversa continuare pure a leggere. 

Mi sentii mancare, barcollai verso il muro opposto. Per un istante, gli uomini sulle scale restarono immobili: attoniti, atterriti. Un istante dopo, una dozzina di solide braccia lavoravano al muro. Cadde di schianto. Il cadavere, già putrefatto in gran parte e imbrattato di grumi di sangue, apparve, ritto in piedi, agli occhi degli spettatori. Sulla sua testa, la bocca rossa spalancata e l'unico occhio di fiamma, stava appollaiata la bestia orrenda, le cui arti mi avevano sedotto all'assassinio, e la cui voce accusatrice mi consegnava al boia. 

Questo articolo su “Sette note in nero” di Fulci è il mio personale contributo all’iniziativa “Notte Horror Blog Edition” che è iniziata il primo luglio scorso e si concluderà il nove settembre, coinvolgendo una ventina di bloggers appassionati di cinema. Già apparsi sotto questa etichetta i seguenti titoli: Dovevi essere morta, Mimic, Brivido, Vamp, Saw, The Mangler, L’insaziabile e La casa di Cristina. Il prossimo appuntamento è previsto su “Il cinema spiccio” di Frank Manila con la recensione di “Amityville Possession”. Il programma completo di “Notte Horror Blog Edition” è consultabile nella colonna qui a destra oppure, visto che quel banner non rimarrà lì per sempre, nel post introduttivo.

22 commenti:

  1. Il gatto nero di Poe sono sicuro di averlo letto, però non me lo ricordo assolutamente, sono passati troppi anni.
    E per la serie gatti infernali, consiglierei "Il gatto venuto dall'inferno" di Stephen King, primo episodio del film "I delitti del gatto nero".

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    1. MI ricordo vagamente del gatto nero di Stephen King: non c'entra nulla con quello di Poe, ma è un'ennesima conferma che il gatto è un ottimo protagonista di queste storie.

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  2. TOM! :)
    Beh, io amo Poe, è uno dei miei scrittori preferiti... e ho Black Cat di Fulci recuperato giusto due o tre mesi fa. Sette note in nero non ce l'ho ma lo conosco, e ovviamente avevo già notato le somiglianze coi due racconti di Poe (Il cuore rivelatore specialmente).
    Ottimo articolo, ed è vero che questo film trascende i limiti del giallo. Ottimo esempio delle glorie anni '70 :)

    Moz-

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    1. Tra i due racconti di Poe ci sono molte similitudini ma anche altrettante differenze. Ero in dubbio fino alla fine se accostare questo "sette note in nero" all’uno o all’altro racconto, ma alla fine, nonostante l'assenza di gatti, non ho potuto che optare per “The Black Cat”

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  3. Io adoro sto film. Mi piace veramente molto!

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    1. Considerando che Fulci ha girato anche un sacco di porcherie, questo film è davvero notevole…

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    1. Ma come? Non l’hai mai visto? È un classicissimo!

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  5. visto secoli fa, me lo ricordo molto poco, lo rivedrò

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  6. Bellissimo post!!!

    Sette note in nero mi era piaciuto moltissimo, ritengo sia uno dei migliori Fulci. E non sai la sorpresa, quando ai tempi lo avevo guardato, nello scoprire che nella colonna sonora c'era una delle più belle melodie utilizzate in Kill Bill! :D

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    1. Anche a me piace molto scoprire che una colonna sonora di un film viene poi ripresa in un altro film. Sapevi che il "Tristano e Isotta" di Wagner, quello che rende epiche le immagini di Melancholia di Lars Von Trier, era già stato usato da Buñuel in uno dei suoi film più famosi?

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    2. Il titolo è "Un chien andalou", un corto del 1928 celebre per essere stato identificato come il film che ha dato il via al movimento surrealista. Lo trovi facilmente su youtube.

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    3. aaah ce l'ho...ecco non sapevo che Bunuel l'aveva usato anche per questo corto meraviglioso :)

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  7. Anche per me è uno dei pochi film di Fulci che tengo in alta considerazione. Però al primo posto del podio dedicato ai film sui gatti neri ci metto sicuramente "Morgiana".

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    1. Anche se per la verità in questo momento non riesco a ricordare se Morgiana sia effettivamente di colore nero. Ma in ogni caso nel film si comporta da gatto nero ;).

      P.S. Gli Egizi avevano una vera e propria dea-gatto: Bastet.

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    2. Il gatto che ricordi tu, quello di Morgiana, era un siamese. Lo ricordo benissimo perché ho un gatto uno esattamente uguale (e di Morgiana ho pure il DVD, per cui posso rinfescarmi la memoria in qualsiasi momento).
      P.S.: Bastet però era un simbolo di positività, no?

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    3. Ho capito: con la tua Iside dei gatti neri pensavi a qualcosa del genere Isais la nera di Meyrenkiana memoria.
      Poi, sì, ho controllato anch'io: Morgiana è un siamese.
      Comunque anche il Behemot del mio nuovo post sul Maestro e Margherita non scherza... è nero come un corvo e ne combina di tutti i colori ;D

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    4. Avevo già notato il gatto nero che campeggia nel tuo recente post sul "Maestro e Margherita". Non ho ancora avuto modo di leggere questo tuo nuovo capitolo ma conto di farlo a breve ^-^

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  8. capolavorissimo, Adoro fulci e questo è senza dubbio uno dei suoi film più belli :)

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    1. Sono completamente d'accordo. Forse addirittura il più bello in assoluto.

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